mercoledì 30 settembre 2009

Crisi: facciamo il punto


CON LA SCUSA DELLA CRISI

La crisi c’è e si sente. Per molti è un dramma, per pochi un’occasione. La crisi c’è e ci sono gli sciacalli, che con la scusa della crisi stessa attuano delocalizzazioni cercando di passare inosservati.La crisi è un’occasione, ad esempio, per chi negli ultimi 25 anni, onde tener testa alla concorrenza sempre più spietata causata dalla globalizzazione, anzichè investire e nell'innovazione e nelle nuove tecnologie ha preferito puntare principalmente sulla riduzione continua del costo del lavoro. Da qui l'attacco ai diritti sociali (a cominciare dal taglio della scala mobile), le leggi sulla precarietà, l'importazione di manodopera extracomunitaria a basso costo ed il tentativo di rendere sempre più precario anche il salario indebolendone la parte certa (il contratto nazionale) in favore di quella incerta e variabile a seconda degli andamenti dell'azienda (il contratto di secondo livello subordinato alla produttività).E come se tutto questo non fosse abbastanza per metterci in ginocchio, c’è la crisi e si delocalizza.In Ue o ancor meglio nei paesi asiatici, l’unica certezza è che i nostri lavoratori restano a casa. E questo perchè le politiche dei paesi emergenti a favore degli investimenti produttivi stranieri sono sempre più efficienti, mentre le nostre politiche perdono di giorno in giorno ogni impronta di interesse sociale. La preparazione dei lavoratori garantita dai sistemi educativi all’estero migliora, attirando attività produttive ogni giorno più sofisticate. A cui si aggiunge, soprattutto, il costo del lavoro dei paesi poveri che è notevolmente più basso del nostro. Le conseguenze sono facilmente individuabili. Delocalizzando si salvaguardano le quote di mercato, spesso erose dalla concorrenza, ma soprattutto si riduce la domanda di lavoro in Italia. Con l’effetto di poter mantenere un tasso di profitto estremamente elevato.Ha fatto scalpore il caso del gruppo Safilo, ad Udine, secondo gruppo mondiale di prodotti del mercato dell’occhialeria il cui profitto si mantiene in costante crescita, il quale mesi fa ha licenziato circa 800 persone per poter delocalizzare in Asia. Ad oggi, non si contano più le aziende che prima impongono pesantissimi straordinari, dopo aprono la cassa integrazione, ed infine licenziano grazie a leggi di uno stato che di sociale non ha più nulla ed a una politica assente e complice.
CHI NON PAGA LA CRISI
Siamo sopraffatti da un senso di vertigine nel consultare le tabelle relative agli stipendi dei manager italiani. Che sono tra i più alti d’Europa anche in tempi di crisi, naturalmente.Mesi fa, con il furibondo crollo della Lehmann, abbiamo assisto a scene di drammatica disperazione da parte dei gruppi aziendali di mezzo mondo, i cui vertici, complici della disfatta dell’economia mondiale, guarda caso sono rimasti tutti al proprio posto con il solito esagerato stipendio.Ma diamo un occhio alla situazione italiana.Un recente studio dell’Ires Cgil ha registrato «una crescita smisurata delle diseguaglianze» tra salari e profitti. In 14 anni si sono verificati per gli imprenditori incrementi del 65%. Per i dipendenti solo del 5%. Una situazione che peggiora addirittura se rapportata a un periodo più breve: nel solo 2002-2008 il reddito disponibile per imprenditori e liberi professionisti è cresciuto mediamente tra i 9.000 e i 10mila euro; per gli impiegati e gli operai tale reddito si è ridotto invece di circa 1.400-1.600 euro (1.599 euro per i salari e 1.681 per gli stipendi) a fronte di un guadagno di 9.143 euro per professionisti e imprenditori.Il dato diventa ancora più tragico se si guarda la dinamica dei compensi dei primi 100 manager italiani la cui crescita dei redditi è stata mediamente 100 volte oltre i livelli medi dei lavoratori dipendenti: con il compenso dei 100 top manager italiani si possono pagare i salari di 10mila lavoratori. «Tutto ciò – si legge nel rapporto Ires - in un Paese nel quale sono circa 7,5-8 milioni i pensionati che guadagnano meno di 9001.000 euro e sono 13 milioni i lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 1.300 euro netti, e di questi 13 milioni ben 7 milioni guadagnano meno di 1.000 euro e la maggioranza è rappresentata da donne.L’Italia risulta così essere la sesta nazione “più diseguale” tra i Paesi Ocse nella distribuzione del reddito: il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% dell’intera ricchezza netta. Non è una situazione lusinghiera.
CHI PAGA LA CRISI:LA RIFORMA CONTRATTUALE:, UN ATTACCO FRONTALE AI LAVORATORI
La riforma del modello contrattuale sottoscritta da Confindustria, CISL,UIL,UGL sferra un gravissimo attacco alla contrattazione nazionale indebolendo pesantemente la posizione dei lavoratori in favore della contrattazione di secondo livello, quella aziendale.Questo accordo, che purtroppo non ha finora ottenuto l’attenzione meritata, danneggerà in maniera enorme le condizioni dei nostri lavoratori.Nel testo sottoscritto non ci sono riferimenti alla difesa del potere d'acquisto dei salari: anzi, i grandi poteri hanno messo le mani avanti visto che per misurare l'inflazione viene proposto un indice di recupero salariale depurato dalla cosiddetta inflazione importata. In parole semplici ,se ad esempio il costo della vita crescerà del 5% e questo incremento sarà per metà dovuto (direttamente od indirettamente) al costo del petrolio e delle altre fonti energetiche,i salari dovranno accontentarsi di un recupero reale del 2,5%. Insomma ,con questo accordo viene programmata una ulteriore riduzione degli stipendi dei lavoratori.Inoltre ,eventuali aumenti da contrattare in sede aziendale sono consentiti solo in relazione alla produttività e redditività delle imprese: così facendo si finisce con lo scaricare sulle spalle dei lavoratori anche il cosiddetto "rischio di impresa",ossia le conseguenze negative di scelte organizzative e gestionali sbagliate del management aziendale.Oltretutto nulle sono le garanzie previste per la stragrande maggioranza dei lavoratori ,che, operando in piccole e piccolissime imprese,non accedono alla contrattazione di secondo livello.Questo accordo è destinato ad aggravare la situazione economica e sociale complessiva perchè impoverisce ancora di più i lavoratori dipendenti in una crisi che è esattamente determinata dall'acuirsi delle disuguaglianze di reddito prodotte da un trentennio di politiche liberiste.A fronte di un attacco così grave contro il mondo del lavoro diventa a questo puntodecisiva l'attivazione di una risposta forte nei luoghi di lavoro ,una risposta adeguata alla gravità di quanto avvenuto.Chiediamo che venga assolutamente svolto un referendum di tutti i lavoratori ,come avvenne peraltro nel 1993 in seguito alla precedente riforma della contrattazione .In merito lasciano stupefatti le dichiarazioni di CISL e UIL contrarie alla consultazione democratica dei lavoratori.Che abbiano forse paura della bocciatura da parte dei lavoratori italiani di questo accordo-bidone?

Fonti: http://www.forzanuova.org/